La Corte dei Conti Centrale Giurisdizionale, in accoglimento del nostro atto di intervento a sostegno dell'Azienda Sanitaria Locale, ha respinto l'appello del sanitario dipendente.

Leggasi testualmente nella sentenza: "Nel procedere all’esame delle altre censure formulate dall’appellante, il Collegio evidenzia l’irritualità della richiesta di concessione di un termine per proporre querela di falso avverso la cartella clinica più volte sopra richiamata. La proposizione di essa non è assoggettata dalla legge a nessuna concessione di termine da parte del giudice: si tratta di un rimedio che è nella piena disponibilità della parte. Già sotto questo profilo l’istanza di parte si appalesa irrituale. E lo è tanto più se si considera che la querela di falso rientra tra le materie che ricadono nella giurisdizione del giudice civile (art. 9 c.p.c.). L’appellante avrebbe potuto proporla dinanzi a tale giudice. La natura della cartella clinica e la sua idoneità a valere fino a querela di falso rende inammissibile l’ulteriore richiesta di prova testimoniale avanzata dall’appellante. L’eventuale escussione di testimoni da parte di questo Giudice non consentirebbe in ogni caso di addivenire a una conclusione diversa rispetto alla attestazione dei fatti risultante dalla cartella clinica. 3) La considerazione svolta da ultimo orienta il Collegio nell’assumere la decisione di rigetto dell’appello. L’atto di parte si fonda su un assunto che confligge con quello che risulta dalla cartella clinica. L’assunto è che il dott....avrebbe compilato la cartella clinica della paziente in termini non corrispondenti alla reale natura della prestazione medica effettuata. Data la valenza di quella cartella, in assenza di declaratoria della sua falsità, l’assunto di parte non può essere preso in considerazione dal Collegio. Nella sentenza gravata sono esaminati esaustivamente gli elementi fattuali e giuridici che connotano la vicenda in esame, attraverso un percorso argomentativo che – ad avviso di questo Collegio - le censure dell’appellante non si presentano idonee a scalfire. Dalla documentazione in atti emerge una responsabilità per colpa grave dell’appellante che, come evidenziato nella sentenza impugnata, in occasione della visita presso la Casa della Salute, non solo non ha inviato la paziente presso una struttura sanitaria maggiormente idonea a prestare cure adeguate ma non ha disposto, né svolto, ulteriori accertamenti, necessari nel caso di specie, quali la visita dermatologica urgente, l’asportazione chirurgica urgente e l’esame istologico, che avrebbero condotto al tempestivo riconoscimento del melanoma a carico della cute della parete addominale. Vero è che la struttura presso la quale prestava la propria attività l’appellante era deputata esclusivamente a visite di primo intervento, ma il Dott..., una volta avvedutosi del quadro clinico che presentava la paziente, avrebbe dovuto inviarla per le cure del caso presso la struttura sanitaria di secondo livello più vicina. Non vi è alcuna prova che lo abbia fatto, preferendo intervenire personalmente sulla paziente, con cure che tuttavia, da quanto risulta dalla cartella clinica, non si sono limitate alla semplice medicazione. Vi è stata, invece, l’asportazione della displasia sanguinante, che ha poi determinato la diffusione - dapprima locale ed in seguito generalizzata - delle cellule tumorali, rendendo necessari ulteriori interventi chirurgici cui la paziente si è dovuta sottoporre. Ciò ha contribuito a cagionare o quantomeno ad accelerare in ultimo il decesso della paziente. L’efficienza eziologica della condotta del ... è comprovata dalle risultanze delle perizie medico-legali in atti, menzionate nella sentenza del giudice di primo grado. In tali relazioni viene evidenziato come l’errore medico abbia aumentato le probabilità di metastasi e pertanto del decesso dal 30/40% al 60/70%, e come per effetto della condotta del sanitario si sia “passati da una sopravvivenza del 90% a 5 anni ad una del 20%”.

Ciò ha comportato a carico dell’Asl un risarcimento del danno da perdita di chance, compensato con un ristoro economico ai familiari della vittima, e del quale la franchigia di € 100.000,00 si è tradotta in un danno per l’amministrazione del quale è chiamato, in questa sede, a rispondere il Dott.... La sua condotta si manifesta gravemente colposa: pur avendo diagnosticato una displasia, non ha tempestivamente riconosciuto la necessità di agire conseguenzialmente. Omettendo di disporre i dovuti accertamenti sanitari, specie istologici, non ha consentito di accertare la presenza del melanoma a carico della cute della parete addominale della paziente ed ha così ridotto le chanches di consecuzione di un vantaggio, in termini di guarigione o di maggiore aspettativa di vita. Il Collegio condivide anche la quantificazione del danno erariale operata dal giudice di primo grado, in considerazione degli accadimenti di causa sopra descritti, ed in particolare dei termini probabilistici in cui si esprimono le relazioni medico legali in atti. Come già evidenziato, da quelle relazioni risulta che l’errore medico ha aumentato le probabilità di metastasi e pertanto del decesso dal 30/40% al 60/70%, passando da una possibilità di sopravvivenza del 90% a 5 anni ad una del 20%. Conclusivamente, l’appello deve essere respinto e la sentenza confermata integralmente. La condanna alle spese di giudizio segue la soccombenza.